Pensieri ed emozioni dalle Bahamas

Questi due mesi di viaggio sono stati molto intesi, un ottovolante di emozioni e sentimenti.
Ho provato rabbia, disgusto, gioia, delusione, immensa felicità, confusione, ho pianto, ho riso e ho cercato di meditare per ritrovare il mio equilibrio, ma avrei lanciato il telefono in mare… quelle vocine soavi e fastidiose che accompagnano le meditazioni guidate mi fan venire i nervi.
La situazione costante che ha accompagnato questo viaggio è stata l’attesa. L’attesa di andare da qualche altra parte, l’attesa della prossima tappa. Non riuscivo a godere del “qui ed ora”, c’era sempre un qualcosa più avanti a cui mirare. Lo so, non bisognerebbe vivere così, forse avevo bisogno di questa lezione di vita. Avevo bisogno di sperimentare anche la pazienza, io, che sono estremamente impaziente ed impulsiva, io, che desidero tutto e subito. La mia mamma mi diceva sempre quando ero ancora bambina “Stefania, ti scotta la terra sotto ai piedi?!”

Aveva ragione vivo in costante movimento.
Per me questo blog è uno sfogo, un modo per liberare la mente e lasciare andare i miei pensieri nell’etere, non sono certamente alla ricerca di follower o like, racconto solamente il quotidiano dei mie viaggi, con i pro e i contro del viaggiare in solitaria.

Di seguito le cose che ho scritto un mesetto fa. Ma la vita cambia, è come un fiume e non sai mai cosa ti aspetta nella prossima ansa.

Ai primi di gennaio ho risposto ad un annuncio di ricerca personale ed eccomi qui a bordo di un bellissimo catamarano sull’isola di Exuma. Ero stata alle Bahamas nel 1987, ma solo a Nassau, a quei tempi, quasi ventunenne lavoravo a Disney World in Florida ed ero venuta a passare i miei giorni liberi su queste splendide isole. Ma sono così tante che non basterebbe una stagione per vederle tutte.
Siamo all’ancora di fronte alla cittadina di Georgetown, tutt’intorno è meraviglioso, il colore dell’acqua è turchese, in questi giorni c’è vento forte, con raffiche che toccano i 60 km/h, il cielo da blu inteso ogni tanto si riempie di nuvoloni bianchi che sembrano panna montata e in pochi minuti vien giù un violento acquazzone, per poi ritornare tutto calmo.


Ieri notte riflettevo su questa cosa:
“imbarcarsi è come iniziare una convivenza con uno sconosciuto”.
Si fanno colazione, pranzo e cena insieme, lo spazio a bordo, seppur su barche grandi, è ristretto, l’unico momento di privacy è la notte quando ci si ritira nelle proprie cabine. Se non si è in navigazione le giornate sono lunghissime e a volte ci sono dei momenti di imbarazzo.
Non sto lavorando ma aiutando a gestire la barca in cambio di vitto ed alloggio, non ho dei compiti veri e propri, ma dato che sono una persona estremamente ordinata ho cominciato a riorganizzare e pulire gli armadietti della cucina, in questo modo capisco cosa c’è a bordo sia come attrezzature che come scorte alimentari, così da sapermi regolare al momento di fare la spesa.
Il capitano è anche l’armatore, a lui piace cucinare e a me lavare i piatti, sono stata fortunata!
Bisogna essere estremamente flessibili e adattarsi ai ritmi delle altre persone.
Difatti sono passate un paio di settimane e qualcosa è andato storto, si è rotta l’armonia, il primo catamarano ha preso la rotta verso nord ed io quella verso sud.
Mi sono spostata di poco, ma a sufficienza per ammirare un altro angolo di Exuma, esattamente il Moriah Harbor Cay National Park.
Qui il colore del mare è incredibilememte ancora più bello, di un turchese chiaro ma con mille sfumature. La spiaggia di sabbia bianca finissima è praticamente incontaminata, dato che nella baia ci sono solo tre barche oltre a noi.
Noi, ovvero il capitano Matt, l’amorevole Marcia e Molly, quest’ultima una bellissima cagnolona di razza Golden Retriver, che aggiunge un prezioso contributo a bordo.
Li ho conosciuti in un locale e mi hanno invitata a navigare insieme a loro, di questo ne sono veramente grata perché sul catamarano Liz mi sono sentita a casa, ho potuto rilassarmi e confidarmi, mi sono resa conto che avevo estremamente bisogno di una figura femminile. Marcia è stata una grande amica, un’ascoltatrice che ha condiviso le mie ansie passeggere davanti ad un bicchiere di vino e a vari magnifici tramonti. Matt, un uomo tranquillo e riservato, una sorta di nerd esperto di tecnologie con cui ho scambiato diverse chiacchere.


Dopo aver esplorato anche l’isola di Lee Stocking, aver visto razze, delfini e tartarughe, aver fatto snorkeling, giocato in mare con Molly e qualche pagaiata sul SUP è giunto il momento di tornare a casa.
Ora sono all’aeroporto di Miami in attesa del volo per Madrid, Roma e poi Cagliari. Come al solito il viaggio sarà lungo, ma per ristorarmi immediatamente il mio bimbo ha già organizzato la serata pizza, che dopo due mesi all’estero è la prima cosa che voglio mangiare rientrata in Italia.

Avete mai dormito nelle capsule iZleep?

Finalmente sono riuscita provare gli alloggi nelle capsule aeroportuali. In Italia sono poche e care (costano sui 90€, qui 48€), inoltre all’aeroporto di Bergamo le volte che ho provato a prenotare non c’era mai disponibilità.
Sono l’ideale quando si arriva in aeroporto la sera e bisogna attendere la coincidenza la mattina seguente, ma alcune persone le usano anche di giorno per riposare tra un volo e l’altro, pagando la tariffa oraria.
Io sono atterrata a Città del Messico alle 20.00 ed il volo che dovevo prendere era alle 7.00, quindi calcolando che bisogna essere al check in due ore prima, non valeva la pena andare in un hotel fuori dall’aeroporto e se ci aggiungi il costo del taxi ed il tempo del tragitto, rimanere in aeroporto ha tutta la sua convenienza.
Dopo aver cenato ero pronta per andare a dormire, così felice di restare all’interno del Terminal, ma una volta entrata, l’eccitazione mi ha fatto passare il sonno. Mi sono sentita come quando da piccola giocavo nella mia mini casetta.
Alla reception mi hanno dato una chiave magnetica che serve per aprire sia la mia capsula “spaziale” che l’armadietto negli spogliatoi, dove ci sono anche lavandini, toilette e docce con pre cabina per appoggiare i vestiti, dispenser di shampoo e bagno schiuma.


Mi hanno spiegato che è obbligatorio lasciare le scarpe negli spogliatoi e per questo motivo mi hanno dato una confezione di calzini nuovi, con cui percorre i corridoi che danno accesso alle capsule. Ovviamenete bisogna stare in silenzio, è vietato fare e ricevere telefonate, esclusivamente in cuffia si possono ascoltare musica e guardare la tv che c’è all’interno della capsula. In dotazione ci sono anche una bottiglietta d’acqua, disinfettante e tappi per le orecchie, che ho usato perché sentivo qualcuno russare, grr. Dagli spogliatoi, divisi tra uomini e donne, si percorre un corridoio che conduce a tre porte, ogni porta dà accesso ad una stanza lunga e stretta quasi completamente buia, solamente da un lato ci sono le file di capsule, una decina sotto e una decina sopra, dei monitor blu indicano il numero della capsula e altri simboli illuminati segnalano se al momento è vuota oppure no, sembrava un po’ di essere in un film di fantascienza dove ci sono questi involucri pieni di corpi che producono energia o che vengono tenuti in vita per poi essere risvegliati nel futuro. In silenzio faccio il video e giungo alla mia, che è l’ultima in alto, passo la chiave elettronica su un simbolino che sblocca la porta, salgo i tre gradini cercando di non sbattere contro la cabina sottostante ma mi si incastra la borsa. Entrò tutta contenta, inizio ad esplorare e faccio cadere un tavolino a ribaltina, in quel momento mi rendo conto che sono fatte in plastica piuttosto leggera e che se dai una gomitata alla parete svegli quello affianco. Pensavo che fossero fatte di metallo, non dico quello usato per lo Space Shuttle, ma comunque qualcosa di più rigido e resistente. Dopo aver provato tutte le luci, giocato con tutti i bottoncini, rischiando di schiacciare anche il tasto emergenza per chiamare la reception, mi metto a dormire. Il materasso è comodo, il cuscino è in memory foam, il piumone bello morbido ed il lenzuolo a sacco profumato, il lenzuolo sotto invece è usa e getta. Alla fine non ho dormito un cavolo, mi sono svegliata quasi ogni ora per la solita ansia di perdere il volo, anche se mi avevano chiesto a che ora volessi essere svegliata.
Comunque mi è piaciuto tantissimo stare sola nella mia cuccettina da astronauta.
Esperienza da ripetere!

Saluti dallo spazio dalla vostra Stefania Cristoforetti.

Mexico – Prova a prendermi

20 dicembre 2022

Due anni fa a quest’ora ero in partenza per le Grenadine, appena prima del secondo lockdown, l’anno scorso invece ho passato l’inverno a casa, in Sardegna, tranquilla, tranquilla. Ora sto scrivendo dal Messico, esattamente dalla Baja California del Sur. Sono qui da meno di una settimana ed ho già modificato due volte il programma, avevo pianificato di stare via molti mesi, ho uno zaino bello carico, che per me vuol dire 15 kg, non come i bagagli di certe colleghe che pesano 26 kg per un evento di 5 giorni. Ma torniamo a me ed al viaggio, due mesi fa ho risposto all’annuncio di un Capitano americano ultra sessantenne, che cerca equipaggio per veleggiare sulla costa Pacifica del Messico per poi proseguire verso sud ed in primavera fare la traversata oceanica verso la Polinesia Francese. Caspita, la cosa mi allettava molto. Ci siamo scritti e video-chiamati diverse volte, ci siamo raccontati tutto e le personalità parevano simili e compatibili. A novembre quindi ho prenotato i voli, me ne son serviti ben 5 ed un totale di 36 ore complessive di viaggio per spostarmi da Cagliari a La Paz, passando per Roma, Madrid, Guadalajara e Città del Messico. In aereo non sono riuscita a riposare molto e, come al solito, ho avuto freddo, seppur ben coperta. Sono arrivata quindi piuttosto stanca e scombussolata dal jet lag, il Capitano, che doveva venire a prendermi all’aeroporto non si vede. Mi connetto al wifi per controllare se ci sono messaggi e mi rendo conto che non ha nemmeno ricevuto quelli che gli avevo mandato la mattina al mio arrivo in Messico, provo a chiamarlo sia su Messenger che su WhatsApp, niente. Dopo circa mezzora d’attesa mi comincio a domandare se non ci sia sotto qualcosa di strano, un simpatico scherzetto, che faccio? Ho in mente due ipotesi: gli è venuto un infarto oppure gli è caduto il telefono in acqua. La seconda era quella esatta, dopo un po’ arriva tutto trafelato, scusandosi e raccontandomi l’accaduto: mentre smontava un pezzo del motore, ha dato una gomitata al telefono poggiato sulla scaletta, che dopo qualche salto è finito nella sentina (la parte più bassa del fondo della barca, dove si raccolgono vari liquidi), risultato: il telefono annega ed è praticamente impossibile recuperarlo in poco tempo. Dopo aver acquistato un nuovo telefono cerca invano di connettersi ai vari social, ma per via delle mille mila verifiche e codici di controllo che arrivavano sulla sim card che giace sommersa, è stato impossibile avvisarmi. Nulla di male, riprendiamo da qui. Salgo sull’auto del suo amico e giriamo per un paio d’ore per tutta la cittadina in cerca di alcuni attrezzi, il meteo non è dei migliori, il vento freddo che soffia dal nord ha abbassato notevolmente le temperature ed io che mi aspettavo un clima caraibico rimango un po’ delusa. Il freddo dei voli mi è entrato nelle ossa, sono veramente stanca, desidero tanto una bella doccia calda, ma ahimè arrivata in barca son stata informata che con il motore smontato non è possibile avere acqua calda e alla Marina non ci sono docce (strano). Sinceramente in 7 anni di esperienze di navigazione non ho mai fatto, né una doccia calda, né una doccia all’interno, mi bastava il doccino a prua, ma qui le cose sono differenti. Il mio giaciglio è il divano nel salone o dinette, la barca ha solo la cabina del capitano a prua perché la piccola cabina di poppa è stata destinata ad uso garage. Mi adatto e dopo essermi avvolta in diverse copertine di pile crollo in un sonno profondo già alle otto di sera. Proseguono giorni di varie riparazioni, ricerca materiali, attesa pezzi motore, riavvio telefono e relativi social network con annesso stress per la non riuscita connessione. Siamo all’ancora di fronte alla Marina di La Paz, l’acqua è scura e fredda, non ispira nessun tuffo, la cittadina ha un lungomare piuttosto moderno ed anonimo, costeggiato da palme ad ago, diverse bancarelle natalizie arricchiscono la passeggiata lungo il Malecòn, nulla mi sembra degno di interesse, se non i venditori di Tacos ai gamberi e il cheviche. La mattina mi sveglio con un senso d’ansia, un vuoto allo stomaco, non mi sento a mio agio. Io lo so il perché ma non è carino dirlo al Capitano, ognuno ha i suoi standard di igiene e di ordine, io non sono di certo la Principessa sul Pisello, però proprio non riesco ad adattarmi. Finalmente dopo 5 giorni ho l’opportunità di farmi una doccia calda a casa di amici del capitano, che bella sensazione. Non fraintendetemi, nel frattempo mi ero lavata a pezzi, un po’ come i gatti.

Dopo aver riflettuto attentamente ho preso la decisione di parlare al Capitano e lasciare la barca. In fin dei conti devo fare ciò che mi fa star bene, nessuno mi sta obbligando a stare a bordo, non ho firmato nessun contratto o fatto nessuna promessa, ma anche se fosse, non bisogna mai andare contro il proprio istinto. Dopo avergli parlato, anche sé è rimasto deluso, mi propone di andare insieme verso il parco naturale dell’Isola di Espiritu Santu, come era inizialmente in programma. Ma stare in mare in un posto deserto per 15/20 giorni, da soli su uno spazio ristretto come può essere un’imbarcazione a vela di 42 piedi (15 mt) mi spaventa, so benissimo che una giornata di 24 ore in mare sembra che duri il triplo, lui è un uomo gentile e premuroso a modo suo, ma ormai si è creato imbarazzo tra noi, come potrei essere serena e socievole? Attuo subito un piano B, per cercare consigli e suggerimenti scrivo un post su una pagina di Facebook di viaggiatrici solitarie che si chiama “Viaggio da sola perché…” , una delle lettrici commenta suggerendo di contattare un ostello nella località La Ventana, noto che è una destinazione per Kitesurfers e già mi brillano gli occhi, avevo iniziato a fare kite col mio ex alle Grenadine, e continuato in Marocco ed in Sardegna. Scrivo subito un messaggio chiedendo se hanno bisogno di volontari che lavorino qualche ora in cambio di alloggio, il proprietario mi risponde che hanno estrema urgenza ed io gli dico che sarei potuta arrivare il giorno dopo, ovvero oggi. Tutta gasata faccio lo zaino, il capitano mi accompagna in marina la mattina presto, ci salutiamo velocemente senza commentare la separazione delle nostre strade ma augurandoci reciprocamente buona fortuna, chiamo un Uber e nel giro di poche ore eccomi qui a scrivere un articolo, dopo aver già organizzato un’ulteriore fuga. Ovvero il Piano C.  Vi chiederete perché? Perché porca puzzola non c’è acqua, nemmeno qui riesco a lavarmi, scende solo un rivolo che basta a malapena per lavarsi i denti. Per fortuna non fa caldo e non sto sudando… però che cavolo. Che poi il posto è stupendo, un ostello dallo stile mexican minimal in muratura/cemento/resina, composto da diversi cottage privati, solo un dormitorio con 8 posti letto misti, tutte le altre camere sono matrimoniali o doppie con bagno privato. C’è una bellissima terrazza vista mare, un’area comune con diversi divanetti di fronte ad una cucina fruibile dai clienti con tre grandi frigoriferi e una zona bar, quella in cui io domani avrei dovuto iniziare a preparare smoothies (frullati di frutta) la mattina dalla 8 alle 12.00 Non riesco a capire perché ci sia una così grande differenza tra zona clienti e zona dipendenti, che poi non siamo nemmeno pagati quindi dovremmo avere qualche benefit in più. L’altro ragazzo è israeliano e a quanto pare è qui da diverso tempo, si occupa delle prenotazioni e dei check in, lui dorme in una tenda, quelle stile ‘Tè nel deserto’, io invece dormo in una roulotte posta sul retro della struttura che in un primo momento mi è sembrata abbastanza decorosa, poi osservandola meglio, anzi standoci dentro, ho notato che è vicino ad un generatore molto rumoroso e ad un grande serbatoio d’acqua, acqua che a quanto pare arriva solo ai bagni degli ospiti paganti. La roulottina è molto anni ‘70, divanetti azzurrini, delle specie di decorazioni rosa e un’esilarante moquette zebrata. Il materasso del letto è piuttosto sfondato, alcuni vetri sono rotti e la porta d’ingresso non si chiude, tira un vento freddo che manco sulle Alpi, fortunatamente ci sono due piumoni, spero di riuscire a dormire tranquilla, proverò a legare la maniglia con qualcosa che tiri verso l’interno. Ho già detto al proprietario dell’ostello (che non vive qui), che domani vado via perché ho ricevuto un’offerta di lavoro, lo so che non si dicono le bugie, ma a me che cosa è venuto in mente di venire a lavorare gratis, dopo aver passato una settimana in una situazione scomoda?! Dovrei coccolarmi un po’ di più e non fare sempre la donna avventura. Comunque ritorno a La Paz, l’hotel (si spera con acqua calda) è già prenotato. Ora vado a dormire. Alla prossima puntata.

Post Scriptum: durante la notte ho sentito toccare la porta cigolante della roulotte, mi è preso un colpo ma dopo un attimo ho visto entrare un gattone, che si è sistemato sul divano, ho dormito in compagnia. Ora faccio colazione col Pandorino che mi sono portata dall’Italia e un bel Chai Latte.

Il rientro. Antigua_Portorico_NYC_Milano_Cagliari

Mamma mia, è già passato più di un mese dal mio rientro in Italia e presa da mille cose, incluso stare sul divano a mangiare Nutella ed accarezzare il gatto, non ho più aggiornato il blog. Sarà che io non sono una travel blogger, scrivo solamente quando me la sento perché non dev’essere una forzatura con delle date da rispettare, ma un qualcosa che ho voglia di raccontare a degli amici virtuali, magari pure inesistenti, i miei lettori immaginari.

In realtà ho iniziato a scrivere quest’articolo sul volo di rientro da Portorico, avevo buttato giù due righe d’impulso, usando la scrittura proprio come sfogo. Ma rileggendolo, soltanto dopo poche ore di sosta a New York, provavo già delle sensazioni diverse, quindi l’ho mollato lì. Questo sta a dimostrare che mi è bastato cambiare “aria” per migliorare l’umore.

Vi avevo lasciati ai preparativi per la traversata Atlantica da Antigua all’Italia. Stavo organizzando la barca: dalla ricerca dell’equipaggio alla messa in sicurezza degli oggetti nel salone e nelle cabine, dall’inventario dei medicinali, del kit di emergenza e delle dotazioni di sicurezza al controllo della zattera di salvataggio, delle vele e del sartiame. Ed è proprio lì che è iniziato il casino. Sono saltati fuori alcuni problemi tecnici, in parte li abbiamo risolti, altri invece richiedevano ispezioni approfondite, le cose si sono fatte più complesse, i tempi si stavano allungando, io mi sono sentita immersa in responsabilità non mie e… boom! Ho perso la pazienza.

Allo stesso tempo ho ricevuto un messaggio da un Capitano con cui ero già stata in contatto lo scorso novembre ed anche in febbraio, onestamente in quelle due occasioni mi aveva lasciata un po’ dubbiosa, ma mi ha proposto un’alternativa interessante: navigare e fare surf per alcuni mesi tra Portorico, Repubblica Dominicana e Panama. In realtà, NAVIGARE era proprio il motivo che mi aveva spinta ad affrontare un viaggio durante la pandemia, che invece si era trasformato in una “sosta” su mezzi natanti ormeggiati ed ancorati. Mi vergogno un po’ a dirlo, ma devo ammettere che ho deciso di accettare il suo invito basandomi su degli aspetti superficiali: surfista californiano coi capelli biondi e lunghi. Le mie amiche lo sanno, ai capelli biondi e rigorosamente lisci non so resistere, ci casco sempre, lo so. Comunque, dopo alcune video chat in cui scopriamo di avere molti interessi in comune, ed in cui ci confrontiamo proprio sulle reciproche aspettative, decido di prenotare il volo per raggiungerlo, lui è entusiasta e non vede l’ora di conoscermi, mi scrive addirittura in italiano, vuole che glielo insegni. Dopo due giorni, scatta il primo allarme rosso: sparisce e non risponde ai miei messaggi. La mattina seguente chiedo spiegazioni e replica che non ha gradito il mio comportamento, aggiungendo che sarebbe meglio rinviare la mia partenza. Cosaaa?! Quale comportamento? Presumo, ma non me l’ha detto chiaramente, che si sia irritato perché non ho risposto ad un suo messaggio di “buonanotte” delle 23.22, ma io stavo già dormendo ed oltretutto il wi-fi non prende in cabina.

Fatto sta che i voli non sono né modificabili né rimborsabili. Rimango sbalordita e rifletto sul caratteraccio che potrebbe avere uno che si arrabbiata per questa sciocchezza. Mi sento in imbarazzo, non so cosa scrivere e anche se riprendiamo lo scambio di messaggi non sono a mio agio, ho quasi paura di dire qualcosa di sbagliato che lo faccia innervosire. Ma stiamo scherzando? Voglio veramente trovarmi in barca con una persona così suscettibile?

Non ho molto tempo per riflettere, mancano tre giorni alla partenza, ho già avvisato Armatore, Capitano e Lissi (la mia compagna di traversata) che non farò più parte dell’equipaggio, ci sono rimasti tutti molto male e me ne dispiace, contavano su di me ma io ho preferito seguire il mio istinto. Ma di questo ne parlo a fine articolo.

Il mio pensiero analitico si focalizza su Portorico. Dato che non ci sono mai stata, decido di andarci comunque, mal che vada mi faccio un giro in un luogo che non ho ancora visitato, quale sarebbe il problema, sono comunque una viaggiatrice solitaria. Comunico al californiano che ho deciso di prenotare un hotel e che se vuole possiamo conoscerci e in un secondo momento decidere se salpare insieme oppure no.

Atterro a San Juan a mezzanotte, prendo un taxi per raggiungere il mio alloggio situato proprio nel centro storico, ho scelto una sistemazione umile ed economica ma situata nella via principale della città vecchia, in modo da potere girare comodamente a piedi.

Dopo un sonno ristoratore esco in esplorazione e mi bastano pochi passi tra le vie di Old San Juan per sentirmi entusiasta e felice della mia scelta. La città è stupenda, fondata nel 1521 si sviluppa alla fine di una penisola che racchiude l’omonima baia, il perimetro è delimitato dalle antiche mura, dal castello di San Felipe del Morro e da altre fortezze, all’interno i vicoli di ciottolato si intersecano su è giù per il promontorio, le case e gli edifici  sono dipinte in colori brillanti e tutte perfettamente ristrutturate. Il clima è fantastico.

Passo una bella giornata girovagando a caso, mi compro un vestitino e mi preparo per la cena con il fatidico nuovo comandante che, per farla breve, dopo aver guidato quasi 3 ore dal porto dove è ormeggiata la sua barca arriva alle 20,15, mi saluta a malapena, va nella camera che mi aveva chiesto di prenotare nel mio hotel, la guarda con aria schifata (io gli avevo mandato le foto e aveva risposto che non era il Ritz ma poteva andare bene per una notte), si doccia e cambia lentamente (peggio di una figa-di-legno-milanese), scende alle 20.45 ci dirigiamo verso un ristorante ma, ahimè, stanno tutti chiudendo perché alle 22.00 c’è il coprifuoco e devono avere il tempo di pulire a rientrare nelle loro abitazioni. Camminiamo per un’ora a passo spedito alla spasmodica ricerca di cibo, ma per legge tutti i ristoranti devono chiudere alle 21, lui ha l’aria infastidita io cerco di sdrammatizzare proponendo una ricca colazione la mattina seguente, finiamo in un quartiere popolare molto pittoresco in cui giovani portoricani fumano, bevono e ballano al ritmo di reggaetton sparato a palla da improvvisati dj set e car stereo, riusciamo ad acquistare una birra che beviamo camminando. Lui non spiccica una parola, io la prendo sul ridere e mi godo comunque l’imprevista serata, giunti al nostro hotel cinque minuti prima del coprifuoco, lui mi dice che ha deciso di cercare un’altra sistemazione, possibilmente col servizio in camera, rimango allibita ma lo saluto cortesemente augurandogli una buona notte.

La mattina seguente, solo in seguito ad un mio messaggio, mi comunica di essere ritornato alla barca. Quindi? Vien proprio da dirgli MA VA A CAGHER!!!

Avremmo dovuto passare la giornata insieme per conoscerci, anche se onestamente dopo il comportamento odioso della sera precedente io avevo già capito che con uno così non avrei avuto nulla da spartire, immaginiamoci ritrovarsi in mezzo al mare con uno che si altera per delle cose futili, l’ho scampata bella!

Eccomi quindi libera da impegni, in quel di Portorico con varie opzioni aperte: rientrare ad Antigua (ma nel frattempo la barca su cui ero han deciso si spedirla in Europa con un cargo), andare a St Marteen dove ci sono tante altre possibilità di imbarcarmi per la traversata Atlantica, oppure volare direttamente a casa. Un rapido controllo ai voli, mi salta all’occhio il prezzo del volo diretto American Airlines New York – Malpensa, solo 150 euro, bagaglio incluso. Al pensiero di rientrare in Italia provo un brivido di gioia, mi si illuminano gli occhi e capisco che è giunto il momento di tornare. Casa dolce casa, arrivoooo!

Resto a Portorico ancora un paio di giorni per visitare anche la parte nuova della città , soprattutto la zona di Contado che assomiglia molto a Miami Beach, alti hotel affacciati sulla spiaggia e lunghi viali costeggiati da palme ad ago, ne approfitto anche per salutare un amico di vecchia data, Ricardo, un surfista portoricano conosciuto a Bali nel 2002, rivisto a Roma nel 2010 e ad Assisi nel 2013… strana la vita e piccolo il mondo.

Il 24 aprile parto all’alba per New York City, atterro all’aeroporto JFK verso le 11.00 ma il volo per Milano è soltanto alle 19.00. Fortunatamente anche se il check in non è ancora aperto riesco a spedire lo zaino liberandomi da una grossa zavorra, mi informo su come raggiungere la città, ma anziché andare a Manhattan, dove sono già stata più volte diversi anni fa, decido di fermarmi nel Queens. Il trenino all’interno dell’aeroporto che connette i vari terminal fa capolinea alla stazione di Jamaica, un quartiere popolare, abitato da immigrati sudamericani, asiatici e presumo anche italiani. Una volta arrivata lì, percorro le vie principali e mi appassiono nel fotografare i palazzi di mattoncini con le tipiche scale esterne antincendio, poi mi addentro nelle vie interne e scopro un mondo a parte, non sembra nemmeno di essere a NY, o per lo meno la New York che conoscevo io, fatta di grattacieli e palazzoni, qui regna il silenzio, ci sono tantissime villette, costruite in legno, in pietra e nei classici mattoncini rossi, ne rimango estasiata, mi prendo qualcosa da mangiare in un supermarket e mi godo la giornata di sole seduta su una panchina sotto ad un albero in fiore, la brezza fresca porta via tutti i pensieri negativi che mi avevano ombreggiato la mente sul volo precedente, serena, respiro contenta di essere libera e sana per poter fare le scelte che voglio, anche quelle errate.

Post Scriptum

Quando sostengo di seguire il mio istinto mento a me stessa e se le cose vanno male lo incolpo, l’istinto, di non funzionare bene. In verità le sensazioni che mi dicono che sto sbagliando strada ci sono sempre ma le ignoro, le copro con un piano mentale ben schematizzzato, ho il cervello in formato Excell, e in più sono del segno della Vergine, pianifico tutto, come se si potessero pianificare i sentimenti e le emozioni. Forse stavolta ho imparato che se capitano degli imprevisti non bisogna incavolarsi, ma viverli nel migliore dei modi.

Un abbraccio a tutti dalla mia amata Sardegna.

Boat Sitting ad Antigua

Oggi è esattamente un mese che sono sulla nuova barca, in totale manco da casa da 3 mesi e mezzo.

Finalmente sono di nuovo serena e contenta, ho ritrovato il mio equilibrio dopo aver avuto qualche momento di profondo sconforto, ma da quando sono arrivata ad Antigua tutto ha iniziato a girare per il verso giusto.

Stare sola in barca mi ha dato la possibilità di riflettere, di godere della solitudine, di aggiustare quello che si era incrinato nel mesi scorsi.

Il mio buon umore però non deriva tanto dal luogo, perché a dir la verità non è che mi abbia colpito più di tanto quest’isola, c’è troppa disparità tra i soliti resort di lusso, i mega yacht e la reale qualità della vita dei locali, ovviamente le spiagge con le palme sono incantevoli, ma forse ne ho avuto abbastanza. Ma, stavo dicendo che mi sesto felice soprattutto perché alcune persone mi hanno ridato fiducia nell’essere umano.

Primo di tutti Alessandro, l’armatore dell’attuale imbarcazione che, senza nemmeno conoscermi di persona, mi ha offerto ospitalità su La Regina del Mare, un bellissimo Beneteau 523, di cui mi sono presa cura in questo periodo mentre lui è via.

Ad un certo punto, terminate le due settimane di quarantena, ho sentito la mancanza delle chiacchiere tra amiche, così ho messo un annuncio su una pagina Facebook di Antigua in cui dicevo che avevo desiderio di incontrare delle ragazze, esclusivamente donne. Mi hanno risposto in tante, di diverse nazionalità. Dopo qualche scambio di messaggi è venuta a trovarmi una ragazza di Ravenna che vive qui da un anno e fa l’insegnate di Yoga, poi è arrivata la volta di Lissi, trasferita qui dal Guatemala 3 anni fa, lei è favolosa! Una persona super generosa, sempre sorridente e disponibile, mi ha portato, anzi donato, frutta e verdura (che qui è cara e difficile da trovare), mi ha letteralmente nutrito, si presenta sempre con del cibo già cucinato, ha messo a disposizione la sua auto per farmi vedere l’isola, mi ha invitata a casa sua e da lì la catena delle amicizie intercontinentali non si è più arrestata. Un suo amico della Repubblica Dominicana ci ha organizzato l’aperitivo in spiaggia al tramonto a Fort James Beach, il giorno dopo una coppia Colombiana ci ha invitate a pranzo e Patricia ha cucinato apposta per me le tradizionali Arepa di farina di mais, che io adoro.

In settimana sono andata a fare delle belle pagaiate con il SUP (Stand Up Paddle Board) partendo direttamente dal pontile dell’Antigua Yacht Club fino alla spiaggia di Pidgeon con un pompiere di Chicago (sì, proprio come il telefilm Chicago Fire); lui, quasi cinquantenne, andrà in pensione il prossimo anno ed è venuto qui a fare un corso di Yachtmaster per poi comprare una barca e salpare per nuove avventure. Ieri è stata la volta dello snorkeling, con Xiaolei, una cinquantenne cinese che vive da 25 anni nella svizzera tedesca e sta passando qualche mese ai Carabi per la prima volta da sola, senza marito e figli, mi ha tempestata di domande perché ha saputo che io viaggio in solitaria ormai da diversi anni, mi considera il suo idolo… che dolce.

La domenica di Pasqua, insieme a Lissi e a Xiaolei, sono andata ad aiutare Lexi, una ragazza canadese, anzi un capitano donna che vive sola su Wild Child, una barca da regata di 40 piedi, molto difficile da governare in solitaria e siccome ora è senza equipaggio, le abbiamo dato una mano a spostarla da Deep Bay a Jolly Harbour.

E’ stata una bellissima esperienza, Lexi prima di partire ci ha fatto una mini lezione di vela, ovvero abbiamo visto al computer tutte le parti della barca e le rispettive denominazioni in gergo marinaresco inglese, perché quando si naviga si deve capire al volo ciò che il Capitano sta indicando, sembra una stupidata ma nella realtà a me nessuno skipper uomo ha mai spiegato e nominato correttamente ogni cosa a bordo, si limitavano a dirmi lo stretto necessario di ciò di cui dovevo occuparmi (ancora, ormeggi, cucina e le carte nautiche per i turni al timone) senza considerare che magari in caso di emergenza mi sarei trovata impreparata. Invece Lexi oltre alla teoria ci ha portato in giro per toccare con mano, drizze, scotte, randa, fiocco, sartiame, poi per assicurarsi che sapessimo avvolgere correttamente una cima al verricello ci ha fatto fare alcune prove, perché se ti resta un dito dentro la forza del vento te lo trancia di netto, e l’idea non alletta nessuna. Una volta assegnato ad ognuna un compito, siamo partite per una fantastica veleggiata, con sole e vento di traverso a 17/18 nodi, la barca era talmente piegata che ci arrivavano gli schizzi anche oltre la paratia, lei è stata così orgogliosa delle sue Baby Sailors, ovvero neofite, che ha immediatamente scritto un articolo sul suo blog, che riporto qui sotto (in lingua inglese).

Adesso scappo perché ho molte cose da fare, sto iniziando il conto alla rovescia per la traversata atlantica, ma ve lo racconterò in un articolo a parte… giuro che lo pubblicherò prima di partire, ovvero tra una settimana circa.

Jolly Harbor Bay

Estratto dal blog di Captain Lexi

All Girl Crew

I was contacted by an Italian girl, Stefania, who is down here in Antigua waiting to crew a yacht across the Atlantic. She answered my ad looking for crew, she thought hey, why not make friends with another girl sailor down here. Although she was not in a position to come be my crew she does have a week free. She offered to bring some friends and help me sail WildChild over to Jolly Harbour. So Yesterday we did exactly that.I admit I forgot to turn on my GPS tracker for the sail yesterday so it looks like WildChild just magically appeared back in Jolly Harbour, whoops my bad.

Stefania was the glue that made this wonderful moment happen. She had recently met these other sailor girls thru facebook and all three of these women were happy to come meet me and help me move WildChild around the corner. If you have been following me for any length of time you will know that I am very much about female empowerment, I just love girl power.

This was a wonderful opportunity for me to meet other girls down here, make friends and get WildChild moved. I have never had 3 crew onboard before so I was a little worried it would be a challenge for me. I had never met any of these girls before yesterday. I brought my dinghy to shore and picked them up on the beach as planned and brought them home with me.

I was unsure about what their individual sailing skill level was and I knew nothing about their backgrounds. We sat down below on WildChild for an hour talking and getting to know each other. Each girl explained a little bit about their sailing background and experience. I asked for permission to give them a very short course in Captain Lexi’s sailing school to make sure we could all communicate using the same technical sailor language. As Stefania is Italian and Lissi is from Guatemala and speaks Spanish and Xiaolei is Chinese / German and English is her third language I knew we would need to bridge the language barrier. Sailing is so full of technical terms it is confusing for even native English speakers to learn and understand. None of these girls spoke English as their first language so I knew it would be harder for them. I knew they would need me to communicate clearly for them so they could follow.

It went great. The one thing that struck me was these girls, who have all been sailing with other (Male) captains had never been taught these terms before. Nobody had ever taken the time to actually explain the sailing fundamentals to them. Each girl had stories about how terrible it was crewing for men, how men grunt and expect them to read their minds. How male captains made them feel either like servants or to feel stupid for not knowing things. One girl crewed for a man for 2 months spending 8 hours a day cooking and cleaning for him for free, one day he turns to her and says “what’s wrong with you…. you act like you do not enjoy serving a man..?” ….!!!!   The girls stories really touched me and I know full well their crewing stories are not unique. Most Captains are men and most Captains are terrible teachers and communicators.

These girls were so happy to have the chance to crew for a female captain and they all just loved the experience. All three girls were just beaming with big smiles the whole sail, happy and appreciated. They thanked me so much for teaching them and explaining things to them and giving them the chance to learn and thrive. A good Captain can figure out how to empower her crew and bring the best out of them and I did a great job with these girls. They did a wonderful job as my crew. A boat full of estrogen was a wonderful experience of kindness and mutual cooperation.

We set sail around noon as planned for the short 5 mile sail over to Jolly Harbour. Being the queen of safety that I am I made everyone wear lifejackets and sailing gloves. I worked hard to make sure I was communicating clearly and making things easy for them to understand. I assigned each girl a station to control and before each maneuver I explained the dance we would all perform together as a team. Everything went so well. Raising the main sail, pulling the Genny, tacking when we had to, just so smooth and perfect.

These girls were a pleasure to have on my boat and I am so grateful to each of them for their help. Sailing is so wonderful when you have good crew, just a joy instead of a chore. With girls there was never any power struggle or challenging of the Captain. Each girl only wanted to be part of the team and figure out how they could help. Stefania was particularly wonderful to have onboard, she has a natural desire to watch and figure out how she can help, looking ahead. 

Any future Captain that is privileged to have her on board as crew is a lucky Captain. I got excited to see my girl crew drawing deep within to find their girl power to conquer the sailing tasks. Who says girls are not strong enough to handle a race boat.

We were running full Genny in 13-18 knots of beam reach wind and WildChild has huge 1 inch thick Genny sheets that are sheeted in manually using huge Barrient32  two speed winches. When sailing beam reach full Genny there is a lot of pressure on the sails. Even grinding the winch on low speed is still very hard. I watched with pride as Stefania got her whole body into the winch handle grunted under the strain but never wavered or failed to sheet the Genny….   GIRL POWER at it best.

Or check this out, little Chinese Xioalei is like 5’2″ tall and maybe weighs in at 120 pounds. This tough girl with lots of ocean experience was doing the main sail work for me. As we start to bring WildChild in a close haul into the wind we have to bring the main traveler up to windward. Under full sail and with good winds, even the reduction blocks are not enough to remove all the pressure on the main traveler sheets. This girl pulls and pulls and cannot move the car. I tell her she is doing great and not to quit, that she can do this. Xiaolei is smiling and determined, she digs deep inside to call upon her inner girl power, wraps both hands around the line, braces her foot against the companionway and uses her entire body to heave the car to windward. Despite the enormous load forces on the car this tiny girl can do it, she wins, she conquers the boat.

I was so proud of her I burst out whooping in excitement. She was smiling ear to ear when she won. Girls have been told by men their whole lives that they are “just a girl” and they cannot do things. I tell girls they “ARE A GIRL” and therefore they can do anything they put their mind to once they find and harness their inner girl power.

I admit… I just loved sailing with these girls. I just loved seeing what they could do when they were empowered by a good Captain like me. That was one of the best sails WildChild ever had and it was because of the spirit of the all girl crew.

Thank you girls

Captain Lexi

Imbarcata “alla pari” alle Grenadine

Vi riassumo i miei 2 mesi e mezzo alle Grenadine.
A fine dicembre dopo mille peripezie ed un lungo viaggio sono giunta sull’isola di St Vincent, dove ho passato 10 giorni di quarantena in un alloggio approvato dal governo prima di potermi imbarcare su bellissimo catamarano di 60 piedi, come equipaggio alla pari. Gli accordi erano: cucinare tre pasti al giorno, occuparmi della cambusa, fare un minimo di pulizie in cambio di vitto ed alloggio.

The Catamaran

La mia intenzione, o meglio desiderio, era quello di navigare, ma ahimè tra protocolli anti covid e problematiche varie legate alla manutenzione della barca siamo stati praticamente sempre fermi. Il capitano continuava a rimandare la partenza per Antigua, fino a quando ho capito che non ci saremmo mai andati. Si ipotizzava un viaggio verso gli Stati Uniti, ma io non ero interessata a quella destinazione, inoltre noi europei non possiamo entrare via mare con l’ESTSA (il visto che so ottiene on line e che dura 2 anni), ma occorre ottenere un visto particolare rilasciato dall’ambasciat a Americana, la più vicina è a Barbados ma in questo momento è chiusa.
Abbiamo passato il primo mese a Bequia, nella baia di fronte a Princess Margaret Beach, il secondo invece (febbraio) a Frigate, nell’isola di Union Island, e ad oggi 7 marzo sono ancora lì e ci staranno almeno un altro mese se non di più.

Frigate Bay
Le mie giornate iniziavano alle 6.45 quando mi svegliavo per preparare la colazione, ovvero uova, bacon, salsiccette, toast, caffè, a volte pancakes, a volte porridge. A seguire ripulivo tutta la cucina e davo una spazzata nel salone. Alle 10.30 preparavo uno snack per skipper e capitano intenti a riparare qualcosa… Anche sulle barche più nuove c’è sempre qualcosa da sistemare.
In un attimo era ora di preparare il pranzo, ho fatto pasta al forno, pizze, focacce, pane, torte…

Verso le 17.30 era già tempo di rimettermi ai fornelli, perché il capitano, americano, vuole cenare verso le 18.30/19.
Questo si è ripetuto per più di due mesi, senza giorni liberi, colpa mia che son stata zitta e non li ho chiesti. Ok, qualche volta siamo usciti a pranzo o a cena, ma la colazione non l’ho mai saltata. La barca è sempre stata in rada all’ancora, mai ormeggiati in Marina, anche perché su queste isole non esistono porticcioli turistici, solo l’ultima settimana mentre il capitano faceva kite ho avuto la possibilità di farmi una passeggiata, di staccare un po’ e di essere indipendente.


Avrei voluto tanto fare kite anch’io, difatti mi ero portata il mio trapezio, ma inspiegabilmente il francese che ha l’attività a Frigate mi ha tenuta in stand by per circa 10 giorni, rimandando puntualmente la mia lezione per un motivo o per un altro, cosa che ha creato in me una profonda frustrazione e nervosismo.
Tutto il contesto era bellissimo, non fraintendermi, ma troppo ripetitivo e riduttivo in quando questi luoghi li avevo già visitati a lungo tre anni fa, quando ho lavorato come cuoca su un altro catamarano. Quindi ho deciso di cambiare rotta, di non tollerare un qualcosa che non mi faceva stare bene.
Dopo aver parlato al capitano e spiegato gentilmente le mie motivazioni ho cercato un’alternativa, che poteva anche essere quella di rientrare in Italia, ma mi spiaceva aver investito tempo e danaro per non aver navigato quanto desiderassi.
Magicamente si è aperta un’altra porta e dopo aver riorganizzato la trasferta, ovvero prenotato, test PCR, volo, hotel e transfer, ed avuto l’esito negativo del tampone, sono sbarcata dal catamarano per intraprendere una nuova avventura.Ho preso un traghetto da Union Island per raggiungere l’isola principale, St Vincent in cui ho dovuto pernottare due notti, dato che l’ultimo ferryboat parte di venerdì ed il volo per Antigua c’è solo alla domenica.
Durante lo scalo alle Barbados mi hanno rifatto il tampone, anche se ero solo in transito per tre ore. La destinazione finale richiedeva un tampone fatto 7 giorni prima, ma qui lo volevano fatto al massimo nei 3 giorni precedenti, questa cosa non era specificata sul sito del governo o della compagnia aerea, fortunatamente non sono stata bloccata e mi hanno comunque fatto imbarcare. La cosa assurda è che l’esito si avrà dopo 48/72 ore… Che senso ha farlo ai passeggeri in transito?
Curiosità: le infermiere in aeroporto non parlavano inglese perché erano cubane, chiamate a lavorare a Barbados per l’emergenza Covid, sono state super gentili e contentissime di poter parlare spagnolo con me.

Sono arrivata sulla nuova barca alle 21 circa, ho trovato ad attendermi un ragazzo che mi ha dato le prime info basilari e mi ha fatto trovare la spesa in cambusa, mi toccherà passare 14 giorni in quarantena, ma la location non è affatto male, sono ormeggiata nella baia di Falmouth. Dopo una bella dormita ho iniziato ad ambientarmi, sarò a bordo di questo Benetau di 52 piedi da sola per circa un mese e quando arriverà il capitano la prepareremo per la traversata atlantica verso l’Italia.
Ma i racconti dettagliati… Alla prossima puntata! 😉

Morale :
Non bisogna arrendersi davanti alle delusioni, ma andare avanti.
Ne dovrò affrontare sicuramente molte altre, ma l’adrenalina della novità mi dà la forza. E gli ostacoli che incontro, li salto!

Azzardare un viaggio ai Caraibi durante la pandemia Covid-19

Oggi è il 22 dicembre 2020 e sono ai Carabi.

Non ho raccontato quasi a nessuno della mia partenza, un po’ per scaramanzia, un po’ perché non ero sicura al 100% di riuscire ad arrivare a destinazione.

Se state per dire che ho messo a rischio la mia salute e quella di altri, vi rispondo che ai centri commerciali, che io tra l’altro non frequento, la situazione assembramenti è di gran lunga peggiore.

Per essere prudente, prima del viaggio sono stata in isolamento e non ho nemmeno salutato le mie amiche di persona. Negli aeroporti e sui voli mi sono consumata le mani a forza di lavarle e disinfettarle, ho cambiato spesso le mascherine e le ho riposte in bustine sigillate.

Ma partiamo con ordine. Lo scorso autunno dopo che il governo ha bloccato nuovamente il settore congressi ed eventi (quello in cui lavoro), ho pensato di cercare un imbarco per la traversata atlantica. Ogni anno tra Novembre e Dicembre, grazie alla spinta degli Alisei, salpano dalle Canarie o da Capo Verde diverse imbarcazioni a vela in direzione Carabi o Brasile. Ho cercato sui siti di ricerca equipaggio qualcosa adatto a me, avevo alcune proposte interessanti ma, ad un certo punto, degli imprevisti mi hanno bloccata a casa fino al 10 dicembre. La situazione Covid aggiungeva incertezza sugli spostamenti, ho pensato che forse non era l’anno giusto per fare l’Atlantic Crossing, primo perché ormai era tardi, la maggior parte delle barche era partita e tra le poche rimaste, se anche ne avessi trovata una last minute, non avrei avuto tempo di conoscere equipaggio e capitano prima della traversata, che dura tra i 15 e i 20 giorni se tutto va bene, inoltre se a bordo ci sono solo tre o quattro persone i turni al timone diventano troppo lunghi e/o ravvicinati, e se qualcuno da negativo o asintomatico avesse accusato gravi sintomi in alto mare? Insomma stavo vedendo più contro che pro, quindi meglio evitare.

Avevo quasi rinunciato all’idea di svernare ai Carabi quando, con il supporto di mio figlio, sicuramente stufo di avermi tra i piedi da circa un anno (viaggiando per lavoro di solito manco da casa diversi giorni al mese), mi sono lanciata nella spasmodica ricerca di un volo.

Sono stata attaccata al PC da mattina a notte per circa due giorni, per leggere tutti i protocolli necessari per arrivare a St Vincent & the Grenadines, e quali paesi avrei potuto attraversare “in transito”, ho cercato un volo che non facesse scalo negli Stati Uniti per via del travel ban, ma nemmeno in UK la situazione sarebbe stata facile. Ci sono dei voli diretti Europa-Caraibi da Francia e Olanda, ma arrivando da Cagliari è praticamente impossibile giungere a Parigi o ad Amsterdam in tempo per prendere un volo mattutino, avrei dovuto pernottare all’estero, cosa impossibile di questi tempi, come era impossibile cambiare aeroporto, causa quarantena una volta usciti dall’aerea “sterile”. Inoltre la comodità del volo diretto verso le ex colonie francesi od olandesi, Martinica o St Marteen sarebbe poi stata annullata completamente dalle quattro, sì quattro coincidenze necessarie per arrivare a St Vincent, avrei dovuto fare la pallina da ping pong tra Guadalupe, Dominica, Barbados, St Lucia.

Che fare quindi? Sono andata a ritroso facendo il percorso inverso, cercando le compagnie che effettuano voli diretti a SVD, ne ho trovato uno da Toronto con Air Canada ma ovviamente non c’è tutti i giorni; dopo essermi accertata sul sito del governo canadese che potessi fare scalo sul loro territorio, ho cercato un volo Italia-Toronto.

La tecnologia odierna, bisogna ammetterlo, è fantastica, sul sito Canada Gov ho trovato un questionario in cui inserendo i dati del passaporto e le destinazioni di partenza e arrivo escono le informazioni sulla documentazione necessaria personalizzata, incluso un link per fare e pagare il visto direttamente on line, inserisco i dati della carta e dopo aver pagato 4 euro il mio eTa è arrivato sulla casella di posta elettronica.

Una volta risolta la parte voli, devo concentrarmi sul test Covid-19. Tra le procedure richieste per poter arrivare a Saint Vincent bisogna effettuare un test molecolare non oltre 5 giorni prima dell’atterraggio e naturalmente deve avere esito negativo. Il mio volo arriva di lunedì ma lascio la Sardegna il sabato precedente, non ho molto margine, considerando anche i tempi per avere il referto (48 ore). I test a pagamento si possono fare in diversi laboratori, ma non l’ RT-PCR, in Sardegna ne sono stati accreditati solamente due, uno ad Olbia ed uno in provincia di Cagliari. Chiamo immediatamente ma non danno informazioni telefoniche, vado sul sito e compilo il relativo form di prenotazione per essere richiamata, passa una settimana e non sento nessuno, vado di persona ma non ottengo riposte, alla fine prenoto ad Olbia, dove c’è la possibilità di scegliere data e fascia oraria, pagando (65 euro) esclusivamente on line si ottiene immediatamente la conferma dell’appuntamento.

A questo punto, procedo con il resto delle cose richieste dal governo di SVG:

  • prenotazione dei 5 giorni di soggiorno obbligatori presso una struttura da loro approvata
  • compilazione del Pre-Travel Form con annessa conferma hotel
  • prenotazione taxi autorizzato per il trasferimento in hotel

Sorpresa: un amico che si trova alle Grenadine mi avvisa che il governo ha cambiato le regole d’ingresso, il test deve essere fatto al massimo 3 e non più 5 giorni precedenti l’arrivo… help!! Pregando in cinese avviene il miracolo e riesco a fissare un test anche a Cagliari lo stesso giorno della partenza.

Questa l’agenda:

Venerdì 18 Dicembre ore 06.00 Cagliari-Olbia 3 ore e 20 minuti.  Attesa di 2 ore e mezza al Drive-in per il primo tampone molecolare. Olbia-Cagliari altre 3 ore e 20.  Miracolosamente alle ore 18.00  arriva via mail l’esito (negativo), ottimo servizio!

Sabato 19 Dicembre ore 10.00 secondo tampone molecolare. Ore 17.45 volo Cagliari-Roma, pernottamento presso un Bed & Breakfast a Fiumicino a pochi minuti dall’aeroporto.

Domenica 20 Dicembre ore 06.00 transfer in aeroporto, fila chilometrica e ben ditanziata al check-in Lufthansa per controllo documentazione. Ho ricevuto i complimenti della hostess per aver fornito tutti, ma proprio tutti i documenti richiesti, autocertificazioni, visto canadese, ricevuta bagagli in stiva, test negativo, travel form, etc etc. lei chiedeva ed io Taaac! da vera milanese, esibivo. Segue volo di circa due ore Roma-Francoforte, immancabile Pretzel in aeroporto. Mi connetto ad internet e rimango sbigottita dalla mail con il secondo referto (negativo), dai la sanità italiana non è messa poi così male. Alle 13.00 volo di 9 ore Francoforte-Toronto. Scalo in aeroporto di sole 18 ore, incluso tentativo di pernotto su scomodissime sedie, interrotto da brividi per temperature glaciali. Indossavo una canotta in cotone, un maglioncino, un pile, un piumino leggero ed un giubbino antivento ma non sono bastati, ho provato anche a coprirmi con il trapezio da kite, in effetti qualcosina ha fatto.

Lunedì 21 Dicembre sarei dovuta partire alle ore 09.15 ma con mia grande gioia scopro che c’è un ritardo di più di un’ora, il volo Toronto-St Vincent dura circa 5 ore. All’arrivo altra lunghissima coda ed estenuante attesa di quasi tre per controlli Covid ed Immigrazione, finalmente arriva il mio turno, mi fanno accomodare ad un bancone con 10 signorine completamente bardate che registrano i passeggeri in arrivo, prendono nota di dove alloggiano e danno istruzioni per la quarantena. Dato che di tamponi ne ho fatti due a me non lo fanno all’arrivo, ma verranno a farmelo a domicilio al quarto o quinto giorno e a seconda del risultato mi diranno cosa dovrò fare, se potrò terminare la quarantena in altro luogo, sempre monitorata, oppure restare qui, comunque per 14 giorni non potrò socializzare.

Prima ancora di aver prenotato il volo avevo scaricato l’elenco degli alloggi approvati per passare la quarantena, ho inviato almeno 15 mail per avere dei preventivi, tra tutte ho scelto un mini appartamento che è sicuramente più grande di una camera d’albergo ed inoltre ho la possibilità di mangiare all’ora che voglio. Nella lista ci sono anche resort lussuosi che si affacciano sul mare ed offrono 3 pasti giornalieri, da consumare esclusivamente in camera, ma se tanto sono confinata tra le mura, che senso ha essere in un posto figo sulla spiaggia?

Agli Skyblue Beach Apartaments ci sono diversi mini appartamenti composti da soggiorno con angolo cottura super attrezzato, camera da letto, bagno, wi-fi, tv, aria condizionata e pale sopra il letto, tutti hanno una verandina affacciata sul giardino. Alcuni giorni prima della partenza ho inviato la lista della spesa alla proprietaria che me l’ha fatta trovare in casa, insomma per ora mi sento proprio a mio agio. Ho da leggere, una valanga di film da vedere, ho addirittura scaricato un App che si chiama “addome”, ben 15 minuti di allenamento quotidiano, chissà che fisico a fine quarantena! 😉

Ma in tutto questo mi sono dimenticata di dire che ho affrontato ‘sto sbattimento perché ho ricevuto un invito a far parte dell’equipaggio di un fantastico catamarano.

Quindi se si vuole veramente una cosa, mettendosi d’impegno e seguendo con attenzione tutte le regole, la si ottiene.

I will keep you updated. Forse.

PS: sono stata molto indecisa se e quando pubblicare questo articolo, per ora l’ho scritto perchè mi piace mettere nero su bianco le mie avventure, e se lo state leggendo avrò deciso di condividerle. 😊

Il lungo viaggio verso Dakhla

In questo periodo di clausura forzata, avendo la fortuna di abitare in una villetta situata in campagna a circa 5 km dal mare del golfo di Cagliari, circondata da 1000 mq di terreno piantumato, mi sono presa una pausa dai social network e mi sono tenuta occupata con lavoretti di bricolage e giardinaggio.  E, diciamo, che il primo mese è passato piuttosto velocemente. Ora però, comincio a sentire la mancanza del lavoro, una Tour Leader non è abituata a star ferma, ma come potrete immaginare, tutti i viaggi e gli eventi di Marzo, Aprile e  Maggio sono stati cancellati, sono speranzosa per la stagione estiva, ma chissà.

Nel frattempo ho pensato di ritornare col pensiero al Marocco, l’ultimo viaggio di piacere che ho fatto lo scorso febbraio.

Dopo aver trascorso un paio di settimane in solitaria nella zona costiera della provincia di Agadir, sono stata raggiunta dalla mia amica Fedra.

Abbiamo deciso di andare a fare un corso di kite surf nella laguna di Dakhla, nel West Sahara, una regione situata all’estremo sud del Marocco, al confine con la Mauritania. Ovviamente la maggior parte della gente, diciamo pure i kiters, la raggiungono in aereo, ma noi no! Vogliamo vedere per bene tutta la costa, ma proprio tutti i 1200 km che separano le due località.

Fedra atterra ad Agadir alle 19:30, io l’attendo direttamente alla Gare Routiere da dove, alle 22.10  parte il nostro autobus. Non amando la lingua francese (alle scuole superiori  preferivo di gran lunga il tedesco) , non mi preoccupo di capire che Gare “Routiere” non è il nome proprio della stazione, ma bensì il nome generico che significa solamente Stazione degli Autobus, esattamente per questo motivo Fedra viene portata dal tassista da un’altra parte, ma questo io non lo so ancora, perché i telefoni con Sim italiane non funzionano e non abbiamo altro modo di comunicare. Calcolando circa mezz’ora tra sbarco/ritiro bagaglio /controllo passaporti, più un’altra mezzora di trasferimento, mi aspetto di vederla arrivare intorno alle 20.45/21:00, stando larghi. Ma niente, alle 21.45 ancora non si vede. Comincio a preoccuparmi e non so che fare, esco, rientro, salgo, scendo, insomma ispeziono ogni angolo del terminal ma di Fedra nemmeno l’ombra.  Fortunatamente sono scortata da due prodi surfisti siciliani, perché come in tutte le stazioni del mondo, la sera non gira bella gente, mi hanno dato un passaggio in auto e si sono fermati ad aspettare la nostra partenza. Sono indecisa sul da farsi: Parto comunque o resto ad aspettarla all’infinito? Avrà perso il volo? Ma come si faceva quando non c’erano i cellulari? Eppure dovrei saperlo dato che ho iniziato a viaggiare da sola nel 1984. Boh. Il bus è al parcheggio, la gente comincia a caricare i bagagli e a prendere posto. Oh, finalmente alle 21.55 appare miracolosamente la mia amica. Tiriamo un sospiro di sollievo e ci accomodiamo.  Ecco appunto, analizziamo la parola “accomodarsi” ovvero mettersi comodi. C’è qualcosa che non mi convince, i sedili sono normalissimi , minimamente reclinabili e noi dobbiamo trascorrere ben 22 ore su questo autobus, sul sito su cui ho prenotato lo pubblicizzavano come “Comfort Luxury Bus”, sedili enormi e completamente reclinabili con poggiapiedi, dotato di connessione Wi-Fi e toilette, ma dov’è tutto questo? Siamo sicuri che sia il bus per Dakhla? Ora chiedo.  Eh sì, pare semplice. Ci guardiamo intorno, sono tutti marocchini, anzi precisamente berberi, non capiscono nemmeno il mio francese scolastico, zero inglese. Su 54 posti, solo 4 sono occupati da donne, le altre sono due anziane con i rispettivi mariti e noi diamo piuttosto nell’occhio e provochiamo curiosità. Dopo solo dieci minuti dalla partenza l’autobus effettua una fermata in una specie di deposito, ah ecco sicuramente dobbiamo cambiare mezzo, dal finestrino vedo un bus con la scritta “Luxury Voyage”, lo indico ad un signore seduto dietro di noi, col quale siamo riuscite a comunicare in portoghese, ma si mette a ridere e ci fa capire che quelli sono usati esclusivamente per le tratte internazionali, sono gli autobus che vanno in Europa. Sigh. Tristezza. Ma quindi cosa si è fermato a fare? Sale un inserviente con secchio e mocio ed inizia a lavare il corridoio, ma non poteva farlo prima di partire, quando era vuoto?! Al nostro sguardo perplesso i vicini di posto mimano persone che vomitano, capiamo che nella tratta da Casablanca ad Agadir ci sono molte curve ed ecco spiegato anche quell’odore agro. Che bel viaggio che si prospetta e non abbiamo nemmeno le salviettine umidificate!

Proviamo a dormire, ma ogni due ore il bus (chiamiamolo pure corriera o torpedone) effettua una sosta di 20 minuti in posti sperduti nel nulla, la gente scende a qualsiasi ora della notte per mangiare e bere, noi vorremmo solo andare in bagno ma vi lascio immaginare come siano le condizioni igienico sanitarie, non sono schizzinosa, però preferirei farla dietro un cespuglio, ma ahimè siamo nel deserto!  Forse proprio per questo motivo noto un signore molto anziano (seduto davanti a noi ma dal lato opposto) che ravana sotto la sua tunica, la moglie gli passa una bottiglia di plastica… no dai, non ci voglio pensare.  Purtroppo invece è così, e guardando sotto al sedile notiamo il pavimento bagnato… basta, basta, ok mi fermo qui.

In un batter d’occhio si fa giorno, così ho modo di guardare dal finestrino. Il deserto, ancora deserto, altro deserto. Bello, affascinante e non sempre uguale, di sassi, di sabbia chiara, di sabbia ocra, a volte ci sono anche le dune.  Lungo le interminabili strade semi-deserte sorgono delle piccole casette dai colori pastello che sembrano quelle delle bambole ma invece sono dei posti di blocco, le guardie della Gendarmerie Royale salgono almeno sei volte a controllare i passaporti, soprattutto i nostri, abbiamo creato un diversivo nella monotonia della giornata.

Durante una delle ultime soste, facciamo quattro passi intorno al bar della stazione di servizio, e notiamo  dei cammelli che stanno attraversando la strada, li seguiamo per fotografarli da vicino ed è così che noto una cosa sconcertante: il deserto è pieno zeppo di rifiuti, soprattutto plastica, alcuni imballaggi rotolano col vento, altri sono parzialmente incastonati nel terreno. Che disastro, il mondo è una grande discarica di spazzatura.

Finalmente verso le 19.00 e con un’ora di ritardo, giungiamo al terminal dei bus a Dakhla City, dove ci aspetta l’autista del nostro Kite center il Dakhla Attitude che sorge sulla laguna, che non è mica una pozzanghera, anzi è lunga ben 45 km! Arriviamo giusto in tempo per goderci uno spettacolare tramonto, non ci muoveremo per una settimana che sarà scandita da ritmi regolari ma rilassati, tra le 10:00 e le 23:00, colazione, kite lesson, pranzo, kite lesson, aperitivo, cena, nanna. Io sono una che si stufa in fretta a star ferma, ma sinceramente in questo luogo non si sente la necessità di uscire dal camp, primo, perché se la motivazione del viaggio è fare sport, non si ha tempo di fare altro, secondo, perché è talmente vasto e bello che non ce ne sarebbe motivo, quando c’è bassa marea poi si può passeggiare sulla laguna fino a raggiungere Dragon Island, una grande roccia che sorge nel mezzo.

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Dakhla sunset

Il posto è fantastico, svariate casette color Blu Tuareg di diverse metrature, si inerpicano su una dolce collina di fronte alla laguna, ai piedi degli alloggi si trova il ristorante, il pub serale, il beach bar, la palestra ed ovviamente il centro sportivo dove si programmano le lezioni  o dove si può noleggiare l’attrezzatura Kite e Windsurf. Insomma il luogo è incantevole, il cibo ottimo, il clima perfetto per chi adora il vento, unica nota negativa è che la maggior parte dei clienti è di nazionalità francese, non me ne vogliate, ma anche qui si sono confermati alquanto distaccati e poco socievoli, vabbè chissenefrega io sono in ottima compagnia!

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Il mezzo per ritornare al nord, esattamente a Marrakech, ci siamo riservate di deciderlo last minute. Dopo aver controllato i prezzi, ovvero 62€ per un’ora e 40 minuti di volo, contro 50€ per 26 ore di bus, indovinate cosa abbiamo scelto stavolta? 😉

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Aeroporto di Dakhla

Qui trovate un breve video della laguna di Dakhla.

 

 

 

 

Social Network Life VS Real Life

“Che bella vita” sembrano comunicare le mie foto.
Negli ultimi anni ho girato il mondo in lungo e in largo, soprattutto in barca a vela dalle isole Fiji ai Caraibi, dalla Grecia alla barriera corallina australiana.
Ho passato lo scorso autunno viaggiando per lavoro tra Amburgo, Shanghai ed il Kenya. Poi a casa nella splendida e soleggiata Sardegna.
Ma dentro di me una nuvola nera si impossessa del mio umore.
Quindi cosa si nasconde dietro ad un’immagine sorridente nei luoghi più incantevoli del mondo? Inquietudine e tristezza.
Ma come? Mi sento dire: hai una vita invidiabile, sei una persona in gamba, una donna indipendente, in salute, in forma (o quasi)… E io mi chiedo: cosa cavolo mi manca? Perché mi sento incompleta? Perché vorrei sempre essere chi non sono?
Mi ritrovo in Marocco a guardare il soffitto della camera e a piangere, anziché godere di questa vacanza, assurdo!

Sto lottando per farmi forza e per focalizzarmi su ciò che ho e non su ciò che mi manca. Ma non è sempre facile.
Ultimamente alcune piccole sconfitte, mi hanno demoralizzata. La fine di una relazione in cui avevo veramente creduto ha riacceso la mancanza di affetto dovuta alla perdita prematura dei miei genitori, poi a causa del corona virus hanno cancellato due eventi/viaggi di lavoro che avrei avuto a marzo, aggiungiamoci qualche elettrodomestico rotto e conseguente spesa imprevista e il morale va sotto ai piedi.
A fine gennaio sono partita per il Marocco dove avrei dovuto fare volontariato in un canile, luogo in cui immaginavo di colmare il vuoto nel cuore, dando e ricevendo amore dai pelosetti, ma come ho già raccontato è stato un fiasco e mi sono pure ammalata, poi sono arrivata a Dahkla a fare il corso di kitesurf, ma ahimè la lezione non è andata come speravo, non ho il livello che pensavo di avere raggiunto l’estate scorsa.
E booom, sono caduta nel baratro.
Ho deluso le mie aspettative, lo so, lo so, non bisognerebbe avere aspettative. Ma come si fa?
A volte mi domando: cosa ci faccio in giro per il modo da sola a 53 anni? Perché non sono a casa sul divano con il mio Mr Smith?!
Perché non sono una di quelle donne appagata dallo shopping che si appassiona alle trasmissioni di Maria de Filippi?!
Cosa pretendo da me stessa, voglio essere la donna bionica?! Guardo le migliaia di giovani travel blogger e mi chiedo se anche le loro foto nascondano dei momenti “no”.
Dopo un po’ di seghe mentali e una mattinata sotto al piumone ho aperto YouTube e tra i video suggeriti (dato che siamo spiati) c’era un sulla depressione. (Questo il link)
Io non sono per nulla spirituale ma l’approccio ironico ed il modo di spiegare le cose di questo Sadhguru mi han fatto scattare la voglia di ritirarmi su, di godermi ciò che ho e di riprendere le lezioni di kite (a destra vado abbastanza bene, devo perfezionare la partenza a sinistra, ma devo accettare il fatto che non sarò mai una campionessa).
Mi sono sentita veramente stupida a lamentarmi e a crogiolarmi nella tristezza, sprecando del tempo prezioso. Bisogna decidere di voler essere felici, ora sono con una carissima amica che ha compreso il momento “down”. Tutti noi passiamo dei periodi neri, giuro che cercherò di lasciare andare i pensieri negativi e di focalizzarmi sul bello. Tipo una birra ghiacciata al tramonto.
Cheers!


PS : ho scritto questo pippone perché magari altre persone si sentono così, ed il detto “mal comune, mezzo gaudio” è vero!
Dakhla, West Sahara, Morocco

Chilling in Tamraght

Come mi era già capitato altre volte, l’inizio del viaggio é stato un fiasco.
In principio mi sono fatta prendere dallo sconforto per la deludente opera di volontariato che non ho potuto offrire ai miei adorati cagnolini…

Poi mi sono anche ammalata, mal di gola e raffreddore di sicuro, probabilmente anche qualche linea di febbre, ma chi lo sa, di certo non mi porto dietro il termometro.

Fortunatamente il bed and breakfast che ho trovato é molto accogliente, per meno di 10 euro a notte ho una camera matrimoniale con bagno condiviso) e una tipica colazione marocchina, servita in terrazza panoramica vista mare, per me é perfetto!

Si chiama Aga Chili e si trova a Tamraght, un paesino a nord di Agadir, recentemente divenuto metà di surfisti per via delle costanti onde oceaniche. In questi giorni tra l’altro, nel paese qui affianco, si è svolta una competizione internazionale di Surf, il Pro Taghazout Bay, a cui mi hanno accompagnato i gestori del B&B, anch’essi appassionati di surf.

A tirarmi su il morale però, ci hanno pensato un paio di surfisti italiani, quei famosi amici di amici di Facebook (vedete che a volte serve a qualcosa?!), che svernano qui, i quali mi hanno gentilmente scarrozza a destra e a manca mostrandomi luoghi meravigliosi, come le dune di Tamrit, la Paradise Valley, Devil’s Rock, ho pubblicato un po’ di video e foto anche sul mio profilo Instagram, che ovviamente si chiama sempre Vagabondingirl.

Ora non mi resta che attendere l’arrivo della mia amica Fedra con cui passerò altre due settimane, prima nel profondo sud e poi di nuovo verso il nord del Marocco.


Ah vi lascio un’idea dei costi sostenuti fin’ora:
• Volo a/r BG-Agadir 36€ (escluso bagaglio)
• Pernottamento e colazione in b&b 9€ a notte
• Pasto ristorantini locali sulla strada 5/6€
• Frutta in spiaggia 2€ (ma forse ora che ci penso mi ha fregato e avrei dovuto trattare)
• Filone di pane o pagnotta araba grande 10 cents
• Al Market: scatoletta tonno 1€, coca cola 50 cents, confezione datteri 75 cents (da noi a Natale mi pare lì vendano ad almeno 3€!)
• Pizza e 2 birre 15€ in ristorante fighetto (gli alcolici sono vietati dalla legge del Corano, pochissimi locali hanno la licenza e li vendono a caro prezzo proprio per non incoraggiarne il consumo)